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L'ULTIMO IMPERATORE
(THE LAST EMPEROR)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 12 novembre 1987
 
di Bernardo Bertolucci, con John Lone, Joan Chen, Peter O'Toole (Italia - Gran Bretagna - Cina, 1987)
 
Da imperatore della Cina a compagno Pu Yi. È un doppio itinerario ad essere alla base di questo film: poiché oltre a quello della "rieducazione" dell'ultimo Signore della Cina, vi è anche quello - quasi altrettanto curioso se non egualmente drammatico - di un regista padano che con venticinquemila dollari americani e diecimila comparse dell'esercito cinese scompare per quattro anni in Oriente ad occuparsi di faccende meno domestiche di quelle di NOVECENTO, e magari anche di ULTIMO TANGO.

Sul parallelismo dei due itinerari si può discutere. E subito lo si è fatto (anche per la coincidenza con l'uscita di un altro melodramma storico, IL SICILIANO di Michael Cimino) a proposito dell'argomento più trito, quello della verosimiglianza storica. Probabilmente ha ragione Sciascia: un artista dipinge chi vuole e come vuole. Ma occorre lasciar decantare il tempo. Attendere che il personaggio o l'avvenimento siano sufficientemente distanti per prendersi le libertà volute (ed indispensabili al respiro del proprio spazio artistico). Le vicissitudini di Pu Yi sono probabilmente (lascio allo storico la patata bollente) approssimative. E non solo poiché sembra che in verità fosse uno che si preoccupasse più delle sue quattro concubine che dei casi di coscienza suoi e di suoi ex-sudditi. Ma sono soprattutto approssimative perché la parte aneddotica de L'ULTIMO IMPERATORE, quella che si appoggia sulla storia della prima metà del secolo, quella che descrive la meccanica politica che conduce dalla Città Proibita ai libretti rossi di Mao, è di gran lunga la cosa meno riuscita del film.

Un film che, come tutti quelli di Bertolucci, è scritto infinitamente meglio nelle immagini che non nella sceneggiatura. O, meglio: che non nella costruzione drammatica del racconto. Mi si chiederà: perché allora un giudizio positivo, perché dimenticare che scrivere in cinema significa riuscire altrettanto bene dell'immagine la parola scritta che deve sostenere l'invenzione formale? Per due ragioni: la prima è che nel cinema di Bertolucci la logica della costruzione drammatica o dei comportamenti ha un'importanza relativa. Visto che, da STRATEGIA DEL RAGNO a LA LUNA, di cinema letterario si tratta, di cinema di referenza, di melodramma. Come quello musicale, che va visto da una platea, ove la distanza fra spettatore e cantante faccia da filtro alle inverosimiglianze della scena, nasconda dietro al Mito le righe del tenore e la ciccia della soprano, così quello bertolucciano va osservato attraverso le volute della fantasia e dell'immaginazione poetica.

Se la dimostrazione (politica, sociale, storica) de L'ULTIMO IMPERATORE, presa alla lettera, lascia dubbiosi, è un'altra dimostrazione, quella poetica, che va salutata. E che, non necessariamente impedisce di giungere (per vie traverse, ma che sono poi quelle leggiadre della creazione) a dei risultati, anche dialettici, equivalenti. Così, come dice l'autore stesso, "il film è l'itinerario di un uomo che passa dall'oscurità della nevrosi alla luce della quotidianità". Oppure, come leggerà lo spettatore più semplicemente, quello della solitudine dell'uomo confrontato a delle bandiere, a delle verità, sempre dissimili e sempre eguali. Quello della crudeltà del potere nei confronti delle esigenze di libertà dell'individuo. Il fascino de L'ULTIMO IMPERATORE sta nello scoprire queste cose grazie all'immaginazione formale (o, dirà qualcuno, malgrado l'impotenza dimostratrice) del regista. Così la costruzione in flash-back, se da un lato schematizza magari banalmente il film, dall'altro contrappone due mondi estetici (quello del sogno del passato, e quello della realtà del presente - ma anche si potrebbe dire, nel senso di un'ambiguità forse voluta nel film, quello di due Miti eventualmente infranti) che si esaltano a vicenda.

Ai toni freddi, alle scenografie stringate della "rieducazione" si accostano continuamente quelli suadenti, melanconici o semplicemente favolistici della corte imperiale. Qui non è soltanto la fotografia di Vittorio Storaro, la scenografia di Scarfiotti o i costumi di Acheson a farsi valere: ma è la mano sempre più sapiente di Bertolucci a farsi - è il caso di dirlo - luce. Una mano, certamente educata fino all'eccesso (diranno alcuni) dalla cinefilia: ma guidata ad un ritmo solenne, ad un utilizzo degli spazi, dei ritmi (traditi talora dal doppiaggio in italiano; che ovviamente ha poco da spartire con le movenze cinesi...) assolutamente ammirevoli.

L'analisi che non riesce a Bertolucci nella costruzione drammatica, nasce invece con facilità estrema nella pittura dei turbamenti dei personaggi: le psicologie che non riesce a spiegare nel racconto, gli crescono fra le mani quando sembra penetrare nel profondo degli animi. Grazie al fruscio di una seta, al languore di un'illuminazione, al colore di uno sfondo. Cosi, meglio che in mille spiegazioni, riesce a descrivere l'esitazione, la curiosità, la meraviglia di un bimbo inducendolo a scostare un 'immensa tenda gialla, che gli preclude la vista dell'esterno della reggia. O, meglio che in cento immagini di repertorio, trasmettere il fascino volubile della rivoluzione con l'immenso dispiegarsi scarlatto di una bandiera proiettata al vento.

Ma il cinema di Bertolucci non è soltanto quella della sensualità, della golosità stilistica, nutrita alla scuola delle referenze estetiche: è pure quello - ed è la seconda delle ragioni per le quali un film come L'ULTIMO IMPERATORE finisce col forzare la nostra ammirazione - dell'amore per un mondo in via di disparizione. Che non è soltanto quella della favola, della rivoluzione, o degli ideali. Piuttosto, di una dimensione del sogno che appartiene ormai al passato: di un cinema pensato alla grande, con tutta la solennità e la nobiltà che ciò comporta. Accostati al coraggio, fosse pure un po' donchisciottesco, di sognare e creare a tal modo, le incertezze e le inverosimiglianze de L'ULTIMO IMPERATORE diventano litigi meschini. Chè alla verità storica ci pensa ormai il telegiornale.


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